Qualche giorno fa mio suocero è venuto a mancare. Non entrerò nei dettagli per rispetto verso la privacy della mia famiglia, ma in questi giorni mi sono sorte diverse riflessioni che vorrei condividere.
In questa società completamente sconnessa dalla natura e dai suoi ritmi, che ripudia la morte e la relega in un angolino nella speranza che svanisca dalla realtà, non si è più capaci di vivere il lutto.
Lo noto da ciò che le persone inconsapevoli ci dicono in questi giorni (e che mi hanno detto quando ho perso mio padre 10 anni fa):”sii forte”.
Sono parole dette ovviamente con le migliori intenzioni e non voglio colpevolizzare chi le dice, ma purtroppo risultano quasi violente. Sii forte, ovvero: non permetterti di essere debole.
La società occidentale non ci vuole deboli e poco produttivi. Non vuole che ci fermiamo ad accogliere le nostre emozioni e purtroppo le persone che non fanno un lavoro di consapevolezza e rilascio di determinate modalità patriarcali, le fanno proprie e pensano di fare del bene portandole avanti.
Eppure accogliere le emozioni, la propria debolezza (normalissima e sacrosanta quando si perde un pezzo della propria vita insieme alla persona che ci lascia) è un lavoro necessario per vivere il lutto in modo che non si trascini creando disarmonia nel corpo e nella mente.
E per fare questo lavoro è necessario rallentare e prendersi tempo. Altra cosa che non viene permessa dalla società.
Ti muore una persona che ami? Ok, prenditi un paio di giorni per il funerale, poi torna al lavoro/a scuola e fai come niente fosse. Questo è quello che vuole la società. Non ci lascia il tempo, né lo spazio per processare il lutto e non vuole saperne niente della tua sofferenza, perché riconoscerla significa ricordare che la morte esiste, è reale e attende tutti. Questa mancanza di riconoscimento del lutto porta una serie di conseguenze che possono trascinarsi per anni.
Spesso queste modalità di non-accoglimento del lutto sono talmente insite nelle persone, che sono loro stesse le prime ad attuarle quando subiscono un lutto. Mantenersi costantemente impegnate/i, tornare subito al lavoro anche se non è richiesto, ributtarsi nella vita di tutti i giorni come se niente fosse successo sono cose che si vedono spessissimo e che, di nuovo, impediscono alla mente e allo spirito di processare la morte della persona cara, dando una parvenza di normalità: sono sicuramente meccanismi di difesa per non sentire il dolore, ma è anche ciò che la società si aspetta.
Quando si pratica la Spiritualità Radicata (come la intendo io ovviamente, non voglio parlare per tutti), il lutto viene invece accolto. Ci si siede con esso, senza giudizio e si ascolta. Si ascoltano e vivono le emozioni che esso porta, si è gentili verso se stesse/i, senza fretta, nella lentezza e nel ritiro dalla società. Quando lo vive qualcun altro (un amico, un collega) non si ignora il suo dolore, ma lo si riconosce senza giudizio, offrendo (se ce la si sente, ovviamente) uno spazio sicuro in cui piangere o anche solo stare in silenzio in accoglienza. Se non ci si sente di offrire di mantenere lo spazio per qualcuno (non è obbligatorio!), si rispetta il suo dolore in silenzio, con gentilezza, senza offrire consigli o incoraggiamenti su come tornare il prima possibile ad essere felice e sorridente. Ognuno ha i propri tempi.
Come in molte altre questioni, la saggezza ancestrale degli antenati ha molto da insegnarci. In passato (anche solo fino alla metà del 1900) il lutto era vissuto e accolto a livello sociale e comunitario. La famiglia vestiva a lutto (tradizione voleva che il lutto dei parenti stretti si portasse per 6 mesi e per quelli meno stretti per 3) e specialmente nei piccoli villaggi tutti gli abitanti sapevano della morte della persona e spesso si offrivano di aiutare la famiglia nelle faccende quotidiane per qualche tempo.
“Portare il lutto” era qualcosa che ricordava costantemente a se stessi e agli altri che ci si trovava in un momento delicato e dava modo quindi di processare l’avvenimento.
Prima ancora, i tempi ormai lontani, il lutto era accolto da tutto il clan e la morte era sacralizzata da rituali in cui tutti erano coinvolti. Certo, oggi abbiamo i funerali, ma sono spesso freddi, celebrati da persone che non conoscevano nemmeno il defunto e quindi impersonali.
Questa è un’altro aspetto che manca molto nella società: un rituale sentito e coinvolgente che aiuti a portare chiusura.
Personalmente trovo utile, oltre al funerale “ufficiale” (che sia religioso o meno a seconda delle credenze del defunto), fare un piccolo rituale intimo in natura per onorare la vita della persona che ci ha lasciato in modo personale e genuino. Credo sia la cosa più bella che si possa fare per chi ci lascia e per noi stessi.
In sunto, nel mio modo di vivere la spiritualità radicata il lutto è: accoglienza, riconoscimento, lentezza, ritiro in se stesse, stare con le emozioni, ritualizzare.
Rimane ovvio (ma preferisco dirlo) che poi ognuno vive il lutto in modo differente e che ogni modalità va accolta, anche se a noi sembra sbagliata. Queste sono solo mie riflessioni personali.
E tu cosa ne pensi? Ti sei mai fermata a riflettere su questo argomento? Ti va di condividere le tue riflessioni?